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C’è un “saper fare” europeo nei processi di negoziazione e di costruzione della pace che non è rappresentato dai governi eletti, non per una deficienza di questi ultimi, ma probabilmente per la condizione di politica liquida che è dietro ad ogni elezione. In Europa, i partiti non sono i principali corpi intermedi deputati alla negoziazione dei bisogni e alla ricerca delle risposte già da un bel po’, invero, mentre la galassia di quella che il Fondo Sociale Europeo chiama “Cso”, civil society organization, è andata crescendo ed ampliandosi in numero di iscritti, azione e competenze.

È urgente che i Paesi membri dell’Unione europea avviino da subito interlocuzioni con la società civile europea, ma anche con quella ucraina, moldava, serba, kosovara, armena, azera, e quindi con i corpi intermedi che resistono nei luoghi del conflitto, caldo o tiepido che sia.

Dobbiamo valorizzare tutto il grande lavoro svolto dalla società civile europea per la mediazione e la risoluzione creativa dei conflitti: quelle migliaia di esperienze censite come “buone prassi” dall’Unione stessa in cui gli europei hanno dimostrato di saper intervenire con efficacia in situazioni pericolose e difficili, come nelle banlieue francesi, nei quartieri periferici italiani, nelle aree rurali dimenticate ed arrabbiate, nelle nostre carceri di ogni latitudine, nei quartieri multietnici che da polveriere diventano esempi di buona convivenza.

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