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Ora più che mai tocca a noi. La fotografia attuale sembra la seguente: gli ucraini vedono la vittoria vicina, gli europei tremano e si preparano al peggior inverno di sempre, i russi ripiegano e minacciano la fine del mondo. Di fronte a questo scenario-polveriera, la domanda che con insistenza continuiamo a porci è quella di sempre: cosa compete a noi, alla società civile? La strada del Mean: i nostri corpi e il nostro tempo

Le conquiste della controffensiva ucraina, e le dichiarazioni minacciose di Putin, costituiscono il nostro attuale equilibrio sopra la follia della guerra. Alla esultanza festosa del popolo ucraino fa da contraltare l’escalation della paura degli europei, che stanno sostenendo proprio quella resistenza: più aumenta l’evidenza della sconfitta di Putin più sembra possibile il verificarsi di un conflitto nucleare.

La fotografia attuale sembra la seguente: gli ucraini vedono la vittoria vicina, gli europei tremano e si preparano al peggior inverno di sempre, i russi ripiegano e minacciano la fine del mondo se qualcuno valica i loro confini (compresi quelli annessi con la forza e con referendum farsa), la Nato con la cessione o meno delle armi può decidere dove conviene fermare il conflitto (se lasciare che l’Ucraina ceda il Donbass agli sconfitti o andare dritti fino a far cadere Putin), la Cina osserva, la Turchia di Erdogan cerca di far contare il più possibile il suo spregiudicato potere di trattativa.

Un equilibrio pronto ad esplodere mentre il placido Mediterraneo continua a mietere vittime e la Grecia, la Libia e Melilla sono diventati i confini militari incattiviti tra l’Europa ed il Sud del mondo.

Di fronte a questo scenario-polveriera, la domanda che con insistenza continuiamo a porci è quella di sempre: cosa compete a noi, alla società civile? Che cosa possiamo fare di concreto per sfidare l’inedito della storia dei nostri giorni con una mossa altrettanto inedita? Abbiamo accolto i profughi, abbiamo distribuito viveri e beni di prima necessità, abbiamo raccolto beneficenze in denaro, ed ora?

Dal teatro di guerra in corso emerge una verità che ci accomuna: ci sentiamo tutte e tutti impotenti. Siamo tutti disarmati e non rappresentati. La società civile, pacifista e pacificatrice, è dentro al mondo della guerra, nucleare e non, come i migranti che viaggiano sui barconi, “governo e parlamento non abbiamo”, per citare De Gregori.

Due cose ci restano: i nostri corpi ed il nostro tempoe costituiscono il nostro unico potere, quello nonviolento. Di fronte all’inedito di una minaccia nucleare globale, ed in mancanza di un dialogo tra un Kennedy e un Kruscev, nessuno ci impone di continuare le nostre vite come se nulla fosse e nessuno ci ha condannato a continuare a ballare sul ponte mentre il Titanic europeo rischia di affondare.

La nonviolenza attiva non è forse l’insegnamento più importante che ci ha lasciato in eredità il ‘900? Il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, non sono forse i vincitori di battaglie impossibili, nonviolenti che hanno trasformato i contesti in cui abitavano con la messa in gioco della loro “apparente” impotenza, fatta di corpi e di volontà?

Lo abbiamo visto accadere davanti ai nostri occhi, insieme a Marianella Sclavi e ad altri amiche ed amici del MEAN, il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta. Essere stati a Kyiv e a Leopoli accanto agli ucraini aggrediti (scarica qui l’instant book che racconta le iniziative), ed averlo fatto determinati e disarmati, anche di aiuti umanitari, ha trasformato i contesti, ha prodotto spazi di dialogo che sembravano inimmaginabili, ha moltiplicato il nostro potere rispetto alla condizione di afonia che vivevamo di fronte ai talk show televisivi sulla guerra. Da pochi scambi di parole con attori della società civile ucraina, molto franchi ed intensi, sono germogliati i progetti di gemellaggio tra comunità locali, la difesa dei musei, l’azione preventiva verso i bambini, il tutto sotto le insegne condivise della nonviolenza attiva.

Avere i piedi piantati su un marciapiede che costeggia Majdan e parlare di pace e nonviolenza con chi è impegnato nella resistenza non è come mettere un like ad una discussione, significa essere parte attiva della storia che ci riguarda.

La società civile europea può scegliere di esserci, a Kyiv come a Mosca ed a Bruxelles, in presenza, fisicamente, in piedi. Può scegliere di credere alla sua potenza nonviolenta piuttosto che lamentarsi del destino che le è toccato in sorte. Noi europei siamo stati colonizzatori e non è toccato a noi abbattere i potenti con la nonviolenza; siamo tutti di figli di una rivoluzione violenta, quella francese; negli ultimi secoli siamo stati principalmente bianchi privilegiati. Oggi tocca a noi. O crediamo di saper cambiare la storia con un movimento di massa che abbracci le strade dell’Ucraina per chiedere la pace, accanto al popolo aggredito, che sostenga la dissidenza russa, e svegli la UE, come forza della diplomazia, oppure saremo come quelli che offrono un thè ai loro vicini mentre la casa brucia, come balsamo alle nostre coscienze.

Limitarsi a chiedere che la NATO si dissolva è oggi demagogia almeno quanto chiedere a Putin di fermarsi da solo. Oggi ci tocca questo tempo in cui esiste sia la Nato che Putin, ed un’Europa senza esercito e senza corpi di pace. A fare la differenza potrebbe non toccare agli Stati e alle loro organizzazioni, ma ai popoli, agli europei. Oggi tocca a noi, a nessun altro. Oggi dovrebbe partire dall’Italia di don Primo Mazzolari, di Ernesto Balducci, di don Milani, di David Maria Turoldo, di Don Tonino Bello, di Alex Langer, di Danilo Dolci, il più inedito movimento della “presenza”.

Kiev è a due giorni di auto da Roma, due giorni nelle nostre settimane sempre piene sembrano un tempo enorme da dedicare ma, se alziamo lo sguardo sulla polveriera che può esplodere, si capisce bene che non investire oggi ogni energia per la pacificazione, con la presenza dei nostri corpi, è la più grande imprudenza che possiamo commettere contro il nostro futuro.

Non ci sarà cambiamento climatico o transizione sociale che tenga di fronte ad un mondo che rischia di autodistruggersi, e muoversi in tempo per alzare la voce in milioni di persone nei luoghi in cui questa guerra avviene potrebbe essere l’unica prudenza.

Gandhi spiegava che solo quando gli indiani si sarebbero accorti di essere trecento milioni uomini e donne contro centomila guardie inglesi avrebbero vinto la loro battaglia. I nonviolenti vincono quando capiscono che hanno più potere dell’avversario e decidono di usarlo facendo avanzare “la forza della verità”, il satyagraha. In Europa siamo cinquecentocinquantacinque milioni di persone, in Russia meno di duecentocinquanta e tantissimi non vogliono la guerra, la stanno subendo come gli ucraini, che sono quaranta milioni, e stanno lottando uniti.

Cosa aspettiamo per dire che siamo “presenti” anche noi, con i nostri corpi nonviolenti?

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