Il pacifismo vive da sempre la sfida della ricerca del tempo favorevole per affermarsi.
Quando una guerra è lontana, l’impegno per la pace è lasciato agli “addetti ai lavori”, quelli che per vocazione e per professione seguono le storie dei conflitti dimenticati, tracciano le rotte delle armi, denunciano le oppressioni in precise aree geografiche del pianeta.
Quando una guerra scoppia vicino a noi, urlare la parola “pace” e far avanzare i pacifisti viene percepito dal mainstreaming come un gesto così ingenuo da risultare quasi infantile.
Il paradosso della difesa della pace è tutto qui: prima dello scoppio di un conflitto la difesa della pace non interessa, un attimo dopo è già troppo tardi per farla avanzare.
Il possibile scenario dei conflitti che aspettano le future generazioni europee è davanti a noi, il mondo è spaccato di nuovo.
Il dialogo tra nord e sud non ha mai davvero funzionato, perché ancora troppo presente l’atteggiamento colonialista di chi usa per i suoi consumi le risorse dell’Africa e ne respinge i migranti; la spaccatura ovest/est torna più prepotente e minacciosa di prima.
Se non è ora il momento in cui debbano avanzare i costruttori di pace, cosa si dovrà più attendere per prevenire le guerre?
La pace scricchiola ormai dappertutto. Dal punto di vista economico è stata schiacciata dal liberismo: è evidente, infatti, che le forze democratiche hanno fatto affari a buon mercato con le forze autocratiche, fino a diventare oggi dipendenti finanche per un tozzo di pane (il fatto che la Russia possa oggi ricattare l’Italia sul costo del grano è finanche più umiliante, simbolicamente, della trappola del gas.
Dal punto di vista sociale e culturale aumentano le derive autoritarie e nazionaliste che vogliono dividere il mondo in razze ed in religioni usate come spade, anche qui in Europa, con la Grecia che militarizza il suo confine ed il gruppo di Višegrad che respinge con gli idranti nei boschi i profughi delle guerre eurasiatiche, ultimi degli ultimi, mentre contemporaneamente dà gran prova di generosità con gli ucraini.
È il ritorno di disuguaglianze umane basate su ragioni ideologiche su cui non solo l’Onu ma neanche l’Ue riescono ad intervenire.
I costruttori di pace possono essere oggi una forza politica che chiede a gran voce una moderna, generosa e visionaria riprogrammazione dell’autosufficienza alimentare ed energetica, una forza che chiede lo smantellamento immediato dei paradisi fiscali in territorio UE, meta anche degli oligarchi russi.
Ma il pacifismo può anche fare di più e deve sognare di divenire un pacifismo attivo di popolo.
Oltre al recupero del pane giusto, servirà far tornare le rose di una spiritualità europea, una spiritualità che sembra essersi persa nel razionalismo politico ed economico.
Questo atteggiamento così “cognitivistico” non sta portando a grandi risultati, come scrisse Alex Langer, “la realpolitik è ben lontana dall’essere una politica realistica”. L’Europa ha urgente bisogno di un cristianesimo unito sull’impegno per i crocifissi nel mondo, almeno quanto è unito nella lotta per i crocifissi nelle scuole e la previsione delle origini cristiane nelle carte europee. Ed ha bisogno anche di una riaffermazione della spiritualità laica ed illuminista che è alle origini delle carte costituzionali pacifiste delle nazioni europee, una spiritualità che oggi sembra essere muta di fronte alla nuova rincorsa alle armi.
Nel già e non ancora del pacifismo postmoderno servirà mettere in gioco i corpi disarmati, mettere in pratica ciò che scriveva Lanza Del Vasto: “se schiaffeggiano la guancia di tuo fratello porgi la tua”. Bisogna esserci fisicamente nei conflitti, come corpi disarmati ed organizzati, esserci non solo come testimoni, ma nei grandi numeri che la modernità ci consente di aggregare, grazie al web ed ai mezzi di trasporto civili di cui oggi disponiamo.
La costruzione della pace ha un nome nel futuro e si chiama “economia civile”, ed un nome nell’oggi che può essere solo “nonviolenza attiva”. Oggi è proprio il momento di far agire la nonviolenza accanto agli eserciti in campo, come migliaia di Ucraini stanno facendo ogni giorno, resistendo nascosti o sventolando bandiere e cantando inni, e come migliaia di dissidenti russi continuano a fare, andando in carcere pur di manifestare.
Ora tocca a noi, tocca ai pacifisti europei.