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Gli scritti sulla vita delle prime comunità cristiane riportano un’espressione che oggi ci appare così teneramente ingenua: marana-thà, il Signore tornerà.

I protocristiani, negletti della società romana e giudaica, confusi come “cannibali” per il loro rito di riunirsi per mangiare e bere il corpo e il sangue di Cristo, martirizzati perché praticanti di una religione vietata, si dicevano sottovoce, tra di loro, incontrandosi nelle piazze, nelle strade, al mercato: Marana Thà, il Signore tornerà.

Ma non si trattava di un’espressione escatologica sulla fine dei tempi, per quei cristiani era la certezza che Dio si sarebbe fatto vivo di nuovo per dimostrare che loro erano dalla parte della ragione e non gli altri, che Cristo li aveva salvati sul serio e che sarebbe tornato da lì a poco a manifestarsi di nuovo, a loro favore.

Dopo duemilaventitré anni dovremmo dire che quei cristiani si sbagliarono? Chiunque vive un grande anelito di giustizia e vive e muore sentendo ancora la speranza nel petto, sa che non è così, che non si sbaglia mai a coltivare la speranza di vedere i “troni capovolti”

Così è oggi per i nostri fratelli e sorelle ucraine, che violati nelle loro terre anelano alla “vittoria”, e si dicono alla fine di ogni discorso “slava Ukraine” come un amen.

Gli zelanti tra di noi che li scherniscono e che vorrebbero spiegare che la “vittoria” è impossibile, si muovono un po’ come i romani e le sette giudaiche che circondavano i cristiani, non capendo nulla del loro anelito.

La vittoria finale a cui molti ucraini aspirano non è più quella militare, ma il trionfo della giustizia, l’affermazione della verità. Sappiamo tutti, e lo sanno anche gli ucraini che non mollano le loro terre, che la giustizia non si ottiene subito e che la vittoria non sarà una guerra totale in cui perderanno tanti cari, eppure continuano a dirselo, nelle piazze vuote a Brovary, davanti ad una scuola bombardata, nelle notti scure di Mykolaiv dove si vive senza corrente, Slava Ukraine, il loro marana-thà.

Noi che non abbiamo le case violate, che non abbiamo dovuto abbandonare le nostre famiglie e abbiamo la corrente solo a prezzi leggermente più alti, abbiamo diritto a spegnere quella speranza? Da cristiani dobbiamo dire: assolutamente no. Quella speranza va accompagnata, il nostro posto è accanto.

Non servono a nulla i nostri buoni consigli, come non servivano quelli degli amici di Giobbe. Ma se siamo lì con loro a spezzare il pane e vivere le loro giornate, quella speranza si realizza.

Sergji, ex campione di corsa rally, a mezzanotte, in una hall di un grande albergo che dovrebbe essere il più elegante di Mykolaiv ed invece è spento, polveroso e con le protezioni ai vetri, stanco di una giornata difficile, con la moglie che gli mandava continui messaggi dal fronte di Kherson, mi sussurra: “Abbiamo perso tutto, la mia vita di prima non esiste più, ma non possiamo smettere di fare ciò che dobbiamo fare. Ogni giorno di vita per me è una vita nuova, non so cosa accadrà domani e se ci saremo ancora, ma non possiamo smettere di esistere e non possiamo fare altro che fare le nostre cose ogni giorno. Slava Ukraina”. Sergji non crede alla vittoria militare intesa come tale, perché non può più esistere, ma crede che non può fare a meno di credere nella giustizia che avverrà. Quando? Non lo sa nemmeno lui.

Il nostro compito di europei non può ridursi al prestito delle armi, non ha alcuno scopo o senso, ma è nel legittimare questa speranza, è sostenere l’anelito di giustizia, è tornare alla massima di Buber “Si ha solidarietà quando l’uno fa sentire all’altro che approva la sua esistenza”.

La pace si può costruire, la tregua si potrà ottenere, ma nessuno pensi di spiegare agli ucraini che non avranno giustizia.

Dobbiamo solo aver il coraggio di dire che pace e giustizia non si baciano lo stesso giorno e che chi ha sete di giustizia deve essere “in piedi”, come la traduzione letterale dei “beati”.

In piedi europei, in piedi ucraini, in piedi Antonio e in piedi Sergji.

Andiamo in Ucraina non per la guerra e le armi, ma per sostenere questo desiderio. Ma non ci andiamo simbolicamente o virtualmente, il Vangelo non dice questo, andiamoci con i nostri piedi.

Domani sarà troppo tardi.

Questo articolo è stato pubblicato da AVVENIRE il 26 febbraio 2023