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Siamo tornati nuovamente in Ucraina come Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, siamo 25 attivisti, e tra di noi ci sono sindaci delle diverse aree geografiche del paese, siamo partiti  nel periodo forse più brutto e violento della guerra. Perché e con quale speranza poi? Perché oggi ancora di più sentiamo il dovere di non lasciare solo quel popolo. Oggi che i droni cadono sulle persone, sulle case e sui parchi giochi, come dei kamikaze impazziti, sembra che ai cittadini di Kiev, di Odessa, di Leopoli, sia toccata una sorte beffarda: essere le cavie di un mondo nuovo che progredisce velocemente verso il peggio di sè.

Lo zar Putin in maniera premeditata punta a far soccombere il popolo oppresso sotto i colpi della fame e del freddo, come già fecero i suoi predecessori. La condizione dell’uomo postmoderno del “rischio”, declinata dal sociologo Beck, sta dando al di qua del Dnipro un saggio magistrale di cosa potrà accadere domani  in un mondo che è polveriera superarmata: i tiranni si danno una mano nell’oppressione, mentre le democrazie, anche molto imperfette, devono maturare e cambiare pelle in fretta, imparare a fermare gli aggressori senza innescare il conflitto nucleare, impegnarsi per gli altri e le altre. È più che mai oggi il momento di affermare che la pace non è “assenza di guerra”, come incitavano i padri conciliari nella Gadium et Spes, ma è un edificio in perenne costruzione che non potrà mai dirsi compiuto una volta per tutte su questa terra, come forse la giustizia non potrà mai essere compiutamente perfetta in un mondo imperfetto. Forse anche la tregua Ucraina non sarà giusta in maniera perfetta, ma le persone tendono a sopravvivere ed amare  oltre che a filosofare.

 In questa transizione permanente, e non lineare,  tra uno stato di guerra ed uno stato di tregua, noi europei non possiamo più godere lo status di “indifferenti”, attendere seduti la fine degli attacchi russi per dire il nostro “noi ci siamo”. Nè basta più l’accoglienza dei profughi, che è sempre bene necessario ed insufficiente quando è rimedio all’oppressione. Certamente non ci si può consolare nell’illusione che le armi di difesa siano la soluzione e che la ragione delle armi darà ragione agli oppressi. “La pace deve sgorgare spontanea dalla mutua fiducia delle nazioni, piuttosto che essere imposta ai popoli dal terrore delle armi”, si legge al paragrafo 82 della costituzione conciliare  della Chiesa moderna.

Chiederemo la pace con forza, tutti insieme, il 5 novembre in piazza, ma in definitiva “a chi” la stiamo chiedendo se non a Dio ed a noi stessi? Si può chiedere al regime dell’Iran di fare marcia indietro sulle sue violenze senza fare leva sulla ribellione delle sue donne? Si può chiedere a Ryad di smetterla di aggredire il vicino Yemen senza che vi sia il coinvolgimento del popolo arabo contro la plutocrazia dei suoi sceicchi? Si può chiedere ad Erdogan di smetterla di massacrare i Curdi dentro le operazioni speciali in Siria, senza dialogare con la resistenza del popolo curdo?

Noi Europei viviamo una “tregua” di settant’anni, ora la tregua è finita e ci tocca seriamente pensare che questa pace ci riguarda non come quelal dello Yemen, perché è già tra di noi, ci tocca immischiarci nella guerra, con una nostra accorata e fisica resistenza nonviolenta.

Avremmo potuto organizzare una Conference call per far accordare i sindaci italiani ed i sindaci ucraini su una collaborazione proficua negli aiuti umanitari e nell’accoglienza degli sfollati interni, ma avremmo tradito il compito di essere portatori credibili di un messaggio nuovo dall’Europa: che la pace si costruisca e si sorregga con una trama fitta e variegata di incontri, in cui ognuno di noi può fare la sua parte.

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