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“Dove è morte la tua vittoria? Dove è morte il tuo pungiglione?” Le parole di Paolo di Tarso, rivolte ai corinzi, una porzione di popolo che oggi potremmo definire “borghese” rispetto al contesto generale della Giudea, ancora oggi risuonano come provocatorie. Paolo cita il profeta Osea, vissuto secoli prima, ma il contesto è ben diverso: l’ex persecutore dei cristiani sa bene cosa significhi essere sottoposto al dolore della carne, alla morte per tortura e per crocifissione. Le parole sfidanti di Paolo non rievocano una metafora o un vago ricordo: egli parla della forza della Resurrezione quando vi era il rischio di una morte violenta per lui e per i suoi discepoli, come poi di fatto accadde. È certamente un discorso escatologico, egli vuole scuotere la spiritualità dei suoi uditori. Ma il suo non è un discorso intellettuale, e neanche una pacca sulla spalla per i moribondi, era il grido di chi ben sapeva che a predicare la Resurrezione di Cristo ci si rimetteva la pelle, proprio come Lui. Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, imprigionato per il tentativo di fermare Hitler con azioni civili di controspionaggio, scriveva così nel suo diario di passione Resistenza e Resa “venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte. (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore”. Accettare la morte ingiusta in vista di una vittoria che arriverà, ma solo se quella morte ingiusta è capace di essere segno stesso dalla promessa di Cristo. Senza l’accettazione di questa speranza nulla ha senso, tanto più non ha alcun senso il dolore. “Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”, dice ancora l’Apostolo.

Pregando con Paolo penso a Iryna, costretta a difendersi dai droni sui tetti di Kyiv, a Venceslao, basso e mingherlino, che da venditore di auto si è adattato alla vita del resistente a Mykolaïv, a Sergji che da campione di rally ha vestito i panni del soccorritore al fronte e da due anni viaggia da ovest ad est ogni giorno, a Igor che faceva il manager ed oggi deve mettere a disposizione le sue competenza per un’impresa molto più grossa, a Orest che insegna al Politecnico di Leopoli ed ora deve combattere contro la disinformatia degli aggressori, a Natalia che difende la rete dei musei ucraini dai continui saccheggi, alle maestre di Brovary che devono continuare le lezioni nei bunker quando suona la sirena. A chi chiede banalmente a Sergji “come va?”, questo uomo alto quasi due metri ed un sorriso amaro risponde costantemente “siamo ucraini, in Ucraina, abbiamo le nostre cose da fare”, per dire : vorremmo poter fare altro ma ora dobbiamo solo fare questo, resistere.

Per questo popolo la Pasqua non è la memoria della passione di Cristo, è il tempo presente, mentre la fede nella Resurrezione si confonde e fonde nella fede di una vittoria che deve arrivare, non conta quando. Escatologia appunto. E non ha nessun valore la regola del “mal comune” che li rende simili agli oppressi di ogni latitudine e agli “oppressi di lunga data”: ognuno porta la sua croce come può. Gli amici vorrebbero dissuaderli, vorremmo poter dire a tutti loro: lasciate che l’aggressione vi passi addosso, cercate solo di sopravvivere per quello che potete, non perdetevi dentro ai vostri sogni di vittoria e di gloria. Parimenti vorremmo poter dire a Gesù di scendere dalla croce almeno per questa Pasqua, almeno per questo popolo di trovare un accordo con Pilato, con i sacerdoti, di non “fare l’eroe”. Ma non è questo il tempo. E le nostre parole sembrano vuote a chi resiste. Serve di più, un’azione, un’imitazione (Kierkegaard) “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli”, prima lettera di Giovanni.

Non sappiamo come andranno a finire le atroci guerre in atto, se l’Ucraina soccomberà, se perderà le sue terre come già successo ad Israele, se vincerà sul Faraone, non sappiamo se alla fine i poveri saranno di nuovo sconfitti nel corso della loro esistenza terrena. Ma il dato da conservare di fronte al mistero della Pasqua è che non gridare alla “vittoria” contro lo scempio della guerra non può aprire alla vera fede. Accettare la morte ingiusta non significa non combatterla. Combatterla non significa vincere militarmente nel qui ed ora. Se nella Pasqua c’è la nostra vera fede, allora non possiamo che gridare con gli oppressi: “dov’è o guerra la tua vittoria su di noi?”. Iryna infatti ha già vinto sul potente Putin, ora tocca a noi fedeli credere a Iryna ed al suo magnificat, tocca a noi non cedere alla potenza effimera di un re.

Questa è la Pasqua che si può vivere, per noi che siamo dall’altra parte di una fronte e che soffriamo per le vittime russe di Putin, per gli oppressi dell’Ucraina, di Gaza, per gli ostaggi di Israele, per il popolo Haiti, per il Congo in fiamme.

Buona Pasqua, siamo con voi, avete già vinto, vinceremo insieme.