Condividi

«Cara Signora, lei di me non si ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quella istituzione che voi chiamate Scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche. Ci dimenticate ». Così iniziava la ‘Lettera a una professoressa’ scritta nel 1967 dalla scuola di Barbiana, il cui eco contribuì a cambiare le sorti della scuola italiana.

Se la ‘Lettera’ fosse stata scritta in questi giorni, don Lorenzo non sarebbe stato affatto gentile con noi. Ci avrebbe rimproverato per non aver pensato a una statistica ufficiale che ci dicesse con chiarezza chi sono e che storie hanno alle spalle i disconnessi. Dal mese di marzo 2020 a oggi non si trova una fonte ufficiale unica di quanti siano i ‘dispersi’ in Italia, non si sa cioè con immediatezza quali siano i ragazzi che di fronte alla scelta tra Dad o niente abbiano scelto il niente, né quando lo abbiano fatto. A gennaio 2021 una ricerca curata da Ipsos e Save the Children ha registrato almeno un disperso per classe; a febbraio un’indagine della Comunità di Sant’Egidio, che prende in considerazione maggiormente le periferie, ha rilevato al Sud uno studente disperso ogni tre. Gli strali del Priore sarebbero andati contro questa ottusa volontà di voler fare parti uguali per studenti disuguali in tempo di pandemia:  la Dad va bene per i forti, i motivati e gli organizzati, ma lascia indietro gli ultimi senza aver tenuto in debito conto le loro storie di esclusione.

Ma non sarebbero i docenti i destinatari ipotetici di quella lettera, questa volta andrebbe indirizzata all’intera comunità degli adulti. Dovevamo e dobbiamo fare di più sapendo che nelle nostre città sono annidati, tra le case e i palazzi, eserciti di adolescenti esclusi che non hanno un motivo per alzarsi al mattino. I dpcm non hanno fatto abbastanza in tal senso, non hanno previsto una regola semplice: tutti i ragazzi che in qualunque modo sono a rischio di dispersione e di esclusione sociale a causa della pandemia hanno diritto a progetti educativi personalizzati, hanno diritto a incontrare altri adulti e altri giovani con cui studiare, hanno diritto di frequentare spazi di apprendimento cooperativo per uscire dalla solitudine, anche ipertecnologica, in cui sono relegati. L’urgenza è far ricominciare la scuola ora, prima di Pasqua, rinnovando l’idea (fisica e psichica) di ‘scuola’, rendendola quanto più diffusa possibile: nei teatri, nelle palestre, nelle sedi associative, nelle scuole stesse, una scuola che possa abitare finanche in spazi domestici condivisi tra famiglie per piccoli gruppi, anche in Zona Rossa.

Una norma deve prevedere con chiarezza e determinazione il funzionamento dei Patti Educativi di Comunità per consentire a piccoli gruppi di adolescenti di potersi riunire in uno spazio della propria città, di quelli chiusi per vera o presunta inessenzialità. È necessario che nuove norme prevedano che i docenti vengano affiancati fin da subito da educatori di strada, con la stessa urgenza con cui sentiamo di avere bisogno di più infermieri. Questa specifica richiesta, insieme ad altre istanze per una complessiva tutela dell’infanzia, è stata avanzata al Ministero dell’Istruzione il 10 marzo scorso dalla rete educAzioni, che rappresenta oltre 400 realtà della società civile, delle associazioni di categoria e dei sindacati, ma al momento non sono pervenute risposte chiare. Oggi quell’incipit suonerebbe così «Cara Comunità degli Adulti, presa dalla partenza della Dad e dalla pandemia forse non ti sei accorta che io non mi sono mai connesso. Come non ti sei nemmeno accorta che tanti altri si sono disconnessi nel tempo, proprio come me. La Dad ci ha respinto nei letti e nei divani, altri di noi hanno ripreso a lavorare con le proprie famiglie altri ancora nei sistemi criminali che li hanno immediatamente presi in considerazione. E nessuno è venuto a cercarci. Fatelo da ora».