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Il mio intervento su Avvenire

Caro Marco, ho letto con molto interesse la lettera inviata ad Avvenire da Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento Italiano, per motivare la sua assenza, e quella di tanti altri che concordano nella sua lettura critica, al sit-in promosso dal Mean davanti l’Ambasciata Russa. Premetto che sono innanzitutto grato al tuo giornale per lo spazio che riserva alle diverse voci del pacifismo italiano, mentre gran parte della stampa insegue unicamente le voci dei governi e dei partiti, come se fossero gli unici attori in campo. La posizione non unitaria del pacifismo non dovrebbe spaventare nessuno, né far aggrottare le sopracciglia o farci spazientire, siamo di fronte ad una possibile escalation nucleare e quindi  ad una remota, ma non più remotissima, autodistruzione di buona parte del pianeta, per mano umana, ed in questi frangenti  le posizioni rigide dei “senza se e senza ma” non hanno molto significato né respiro.

Oggi ci tocca esercitare la nonviolenza con tanti se e tanti ma, pesare ogni gesto e parola, definire ogni possibile strategia tra quelle non ancora intentate, sviluppare tattiche all’altezza della situazione, partendo da un presupposto: non siamo nel “già visto”, siamo in una condizione inedita della storia europea. Se è vero, come ci insegna Vico, che la storia si struttura in corsi e ricorsi, sarà anche vero che tocca ad una determinata popolazione in una determinata epoca il compito di distinguere un corso da un ricorso.

La possibilità concreta che l’Europa venga distrutta da un conflitto nucleare ci mette di fronte ad una posizione inedita come società civile di un paese democratico: come donne e uomini liberi, qui ed ora, non possiamo semplicemente accomodarci nella posizione di chi enuncia, anche con forza, cosa dovrebbero fare i nostri governi, in termini di armamenti o disarmo. Siamo parte di quel 6% del pianeta che, secondo tutti gli standard internazionali, gode di una democrazia compiuta.

Ci sono tante altre guerre nel mondo, è vero, ma noi non siamo abitanti della Libia, dello Yemen, della Siria, del Tigrai, della striscia di Gaza, del Kashmir, delle zone controllate dal Narcotraffico, zone del mondo in cui la guerra e la violenza si accompagnano a condizioni politiche che restringono le sfere del diritto e delle libertà individuali.

Questa guerra è diversa perché colpisce i paesi democratici che vivono al confine della nostra Unione e ci interroga come abitanti di Europa, prima ancora che come attivisti della pace mondiale.
Questo conflitto è diverso dagli altri perché si svolge sotto i nostri occhi, a meno di un giorno di viaggio da Bruxelles, e restare immobili è una scelta, non un obbligo.
La nonviolenza attiva è certamente una scuola di pensiero e di pratiche maturate quando gli apparenti ultimi hanno capito di avere una forza straordinaria, il Satyagraha, la forza della verità, da agire per rovesciare i potenti dai troni senza ucciderli, unendo lo spirito di migliaia di persone sottomesse e presenti fisicamente, che lottano in modo nonviolento per lo stesso obiettivo.
La storia del ‘900 non è solo quella delle barbarie europee dei conflitti mondiali, è anche quella di Gandhi, di Martin Luther King, di Mandela. Oggi sono gli ucraini a dover fronteggiare un nemico terribile, ma tocca a noi europei agire la nonviolenza accanto ad essi. Se non sapremo agire con loro allora non potremo loro negare nemmeno il fucile per difendersi.

La presenza del MEAN in Ucraina ci ha confermato che è possibile, che si può organizzare una grande marcia nonviolenta degli europei contro l’aggressore russo, ma si dovrebbe muovere almeno l’1% della popolazione europea perché quella forza si elevi: cinquemilioni di persone in marcia.

Perché non dovrebbe toccare a noi oggi marciare, come ieri è toccato in sorte a chi era oppresso dalle nostre colonie?
Ci tocca oggi superare l’eredità della nostra storia rivoluzionaria, che ribaltò i nobili ed i privilegi con le forche e le ghigliottine, e realizzare una mossa inedita sullo scacchiere che abbiamo di fronte: far avanzare la forza della verità con i nostri corpi di europei presenti a Kiev.
È imprudente? Non lo è forse molto di più affidarci allo scontro tra gli eserciti mentre ci sono migliaia di armi atomiche pronte a brillare?

Ed infine: mentre chiediamo alle diplomazie di lavorare per noi, chi prepara concretamente i due popoli a lavorare per il dialogo se la pace che dovesse arrivare sarà solo un equilibrio tra apparati militari o una doverosa resa alla deterrenza atomica?