Lo scorso 11 e 12 luglio il Mean è tornato ancora una volta in Ucraina, per la 11ma volta.
Per pregare e per riflettere sui passi necessari all’uscita della guerra. L’ultima missione può essere considerata l’ennesimo atto di uno splendido fallimento. Per spiegare cosa intendo con questa espressione devo fare una breve premessa per contestualizzare cosa avrebbe dovuto funzionare e cosa nonostante tutto sta funzionando e cosa ci conferma nella nostra finora fallimentare ostinazione.
Con l’aggressione all’Ucraina da parte di una potenza nucleare, siamo entrati in un’epoca ed una condizione esistenziale davvero inedita. Bobbio parlava dell’avvento di una “coscienza atomica” planetaria, perché era convinto che, dopo l’esplosione di Hiroshima e l’avvio della deterrenza nucleare, il pacifismo avrebbe smesso i panni di un movimento finalistico basato sulla volontà di affermare valori ultimi, per fare spazio ad un movimento basato più semplicemente sulla ragionevolezza umana.
La coscienza atomica avrebbe dovuto generare un naturale movimento di auto-consapevolezza della maggioranza dell’umanità, preoccupata di salvare se stessa dall’estinzione che conseguirebbe ad una guerra nucleare totale.
Con la caduta del muro di Berlino e l’apertura del neoliberismo ad Est, di Stato o meno, abbiamo invece irragionevolmente decretato la fine precoce della utilità di ogni deterrenza e finanche preconizzato “la fine della storia” (Fukuyama).
A ripensare oggi a quel nostro atteggiamento di “futuro garantito” e di “strada in discesa” sembra essere in una follia pura: un mondo armato fino ai denti di ordigni atomici non può essere al sicuro per mere condizioni geopolitiche, che come tutte le condizioni umane sono passeggere e transitorie.
Il 24 febbraio 2022 siamo passati da una guerra fredda ad una guerra caldissima, l’aggressione all’Ucraina, ed una guerra globale tiepida, che rischia di diventare bollente sotto i nostri occhi e le nostre coscienze impotenti anche se ben consapevoli.
L’armata di Putin è stata respinta con successo ad est dopo aver tentato di espugnare Kiev, ma nel frattempo è riuscita a rapire oltre 16 mila bambini e ad occupare micro aree rurali e grandi territori urbani come Mariupol, la città di Maria.
Ora siamo di fronte ad un nuovo tornante della storia: fine della deterrenza o nuova forma della deterrenza post-guerra fredda?
Cosa possono fare uomini e donne comuni che si trovano loro malgrado a vivere nelle pieghe di questo tornante e che non si accontentano di esserne solo spettatori?
Ed ecco il nostro apparente fallimento. Noi del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta da due anni stiamo gridando agli europei: uniamoci in una azione nonviolenta di massa contro l’invasore. Dobbiamo metterci in cammino se vogliamo evitare l’escalation nucleare, ed al tempo stesso chiediamo a voce alta che vi sia una pace giusta per il popolo ucraino.
Ci siamo uniti perché condividiamo la consapevolezza che sia venuto il momento di una mobilitazione civica di massa, non soltanto metaforica, delle menti e dei cuori, anche e soprattutto delle gambe.
D’altronde Kiev è a due giorni di auto da Roma siamo nell’era dei trasporti veloci e delle comunicazioni veloci, chi impedisce gli europei di raggiungere i luoghi martoriati, per dire con i nostri corpi: “ecco noi siamo qui, aggrediteci tutti”?
Un altro grande pacifista del ‘900, Lanzo del Vasta, scriveva : se percuotono la guancia di tuo fratello, tu porgi la tua.
Chi ci costringe oggi ad assolvere solo la funzione di spettatori della guerra e chi ci impedisce di porre davanti all’aggressore milioni di altre guance da colpire? Probabilmente la paura, ma non può essere questa l’unica ragione che ci blocca nelle case.
Viviamo da troppo tempo in una cultura della delega e del disimpegno. Siamo figli di un approccio consumistico che con la sua industria pubblicitaria ci vende modi per fare soldi senza lavorare e dimagrire senza fare sforzi dietetici.
Con quella stessa logica anti-dolorifica oggi c’è chi vorrebbe raggiungere la pace in Europa senza metterci il proprio impegno
personale, senza mettere in moto il proprio corpo di fronte alle ingiustizie. Viviamo nella condizione di homines videntes, per dirla con Giovanni Sartori, uomini che credono che basta che le cose le vediamo in Tv o sugli smartphone per “esserne parte”, finanche per situazioni limite come la guerra o la pace. Ebbene non è così.
Ci siamo messi insieme, dall’Azione Cattolica al MASCI, dall’Anci alla Rete Sale della Terra, dalle Reti della Carità a Vita, a Base Italia, al Movimento del Volontariato Italiano e siamo partiti per l’Ucraina 11 volte, uomini e donne comuni, esperti internazionale di conflitti come Marianella Sclavi, e meno esperti come me, pacifisti, ambientalisti, cattolici, laici, e ci siamo messi in cammino per fare la nostra piccola parte in questa storia, a servizio della pace, per ascoltare i nostri fratelli e sorelle ucraine non qui, al sicuro, in Italia, ma lì, in Ucraina, a Leopoli, a Kyiv, a Mikholaiv, a Brovary, ad Horodnya, a trenta kilometri dal fronte, per dire loro il nostro “eccoci”. Abbiamo condiviso la paura , i rifugi aerei, l’ansia per le sirene, il caldo infernale, senza refrigerio dei condizionatori, la mancanza di acqua e di luce, il freddo, la mancanza di risposte adeguate alla violenza subita ed abbiamo scoperto una verità straordinaria: eravamo e siamo importanti per i fratelli e le sorelle ucraine, pur nella nostra apparente veste di “servi inutili”.
Nicolai, il sindaco della città de-occupata di Horodnya, vicinissimo al fronte nord, confinante con la Bielorussa e la Federazione Russa si è commosso al nostro arrivo: da due anni e mezzo non aveva più visto alcun civile straniero sulla sua terra, e non poteva crederci che eravamo lì, a maggio scorso, in carne ed ossa a dire “vogliamo essere utili per la vostra comunità”.
Gli abitanti di quel piccolo centro rurale si sono liberati dal giogo dell’occupazione con una protesta di massa nel marzo ‘22, circondando con bandiere e canti e con i loro corpi disarmati, i soldati russi, fino a che non se ne sono andati, agli inizi di aprile, anche grazie all’arrivo della guardia nazionale ucraina.
Ci sono centinaia di Horodnya che hanno reagito così all’occupazione, liberandosi dal nemico (Nello Scavo ne ha raccolte diverse testimonianze nel suo libro “Kyiv”), e Nicolai ci insegna che non c’è nulla che noi europei senza guerra possiamo insegnare agli ucraini violati, ma che il nostro essere presenti fisicamente, può cambiare la storia.
Nei nostri viaggi abbiamo ascoltato tanto e parlato con tutti, con le organizzazioni della società civile in primis, con i leader religiosi, con i parlamentari, con i sindaci, con i giovani, con gli obiettori di coscienza, abbiamo parlato con tutti ed insieme abbiamo capito cosa avremmo potuto fare.
Abbiamo riflettuto con i nostri interlocutori sull’impulso alla vendetta che l’essere vittime di efferata aggressione e violenza suscita in noi. Al desiderio di far provare loro le stesse angosce e dolore che ci hanno inflitto. Abbiamo studiato insieme, società civile ucraina ed europea, gli insegnamenti provenienti dalla cultura africana dell’Ubuntu: abbiamo scritto documenti condivisi sulla possibilità di smentire il nemico ,di spiazzarlo, dimostrando col
proprio esempio che nonostante tutto la strada della umana pietà, solidarietà, del rispetto, è una strada percorribile.
Abbiamo convenuto che reagire alla violenza del dispotismo con più democrazia è un’arma fondamentale per la vittoria finale.
Mentre gli eserciti si contendono la guerra, cercando di prevalere o di non soccombere, noi possiamo già costruire l’Europa che verrà domani, quando l’Ucraina sarà nella nostra comunità politica, ed abbiamo detto insieme: se a Roma nel ‘57, nella Roma distrutta e ferita, furono siglati i primi trattati per la nascita della Comunità Europea, a Kiev bisognerà far nascere la Difesa Comune Europea, quell’istituzione voluta a Ventotene da Spinelli, Rossi e Colorni, voluta da De Gasperi e tanti altri padri fondatori e mai nata per mille ragioni storiche che oggi sono superate.
La Federazione Russa ci ha dato una sveglia, come anche le parole del candidato Trump sul futuro di un’Europa con meno Nato.
Non possiamo delegare ad altri la gestione dei conflitti armati e delle tensioni regionali, l’UE deve dotarsi di un suo meccanismo di difesa se vuole avere futuro e noi diciamo, con gli ucraini, da Kiev: l’UE deve far nascere i suoi Corpi Civili di Pace.
Non bastano più le missioni di osservazione ed i finanziamenti per il sostegno allo sviluppo dei paesi in guerra o in tensione armata, dobbiamo fare di più, dobbiamo agire prima, durante e dopo, con una istituzione nuova. Una istituzione capace di progettare i percorsi di pacificazione, fatta dalle istituzioni e dalle ONG, da esperti e da volontari, dal personale diplomatico e da gente comune coordinata, come aveva scritto con grande perspicacia e lungimiranza Alex Langer ai tempi delle atrocità serbe sulla popolazione bosniaca.
Dovevamo intervenire nel Donbass ed ancora prima in Crimea con i CCPE, perché non bastano più le condanne e le sanzioni che non fermano i despoti; dovevamo intervenire dopo i trattati di Minsk 1 e Minsk 2, perché la storia dei trattati di pace ci insegna (come tra Israele e Palestina dopo gli accordi di Oslo), che non basta scriverli bene se poi non si è presenti fisicamente per manutenerli, per provocare costantemente il dialogo tra popoli avversi o apparentemente avversi, per cercare forme creative per la negoziazione quotidiana dei conflitti, per evitare il sabotaggio dei negoziati ben scritti e ben fatti.
Dobbiamo essere presenti oggi come corpo di pace in Ucraina non domani , perché non è giusto e non è utile lasciare da soli gli ucraini esposti a 900 giorni di rabbia e di dolore. Il popolo che venne fuori dalla resistenza italiana fu certamente un popolo migliore di quello che c’era prima e che aveva tollerato il varo delle leggi razziali. Gli italiani riunitisi nell’assemblea costituente hanno potuto esprimere il loro meglio una volta che si furono liberati da un giogo oppressivo, e ci liberammo con l’aiuto delle forze alleate, non da soli.
La classe dirigente ucraina che si sta forgiando in questi anni potrà essere la migliore classe dirigente di Europa, ma solo se noi saremo lì, non tanto nel prestito di soldi e di armi, che in qualche caso crea anche debiti, ma come civili europei convinti di voler sostenere con i mezzi della pace la parte giusta della storia, l’Ucraina violata, l’Ucraina che resiste ad un’oppressione.
I corpi civili di pace europei dovranno essere lì quando la tregua arriverà , perché è nelle ferite di una tregua che possono slatentizzarsi gli odi più profondi, i regolamenti di conti, oppure le esperienze più innovative del dialogo tra parti in conflitto.
Non è giusto e non è utile lasciare solo agli ucraini questo compito di convivere con una tregua, quando questa arriverà, dobbiamo assolvere tutti insieme questo compito, costruirne il processo ora, non domani.
L’11 luglio 2024 a Kiev ci siamo incontrati in centinaia per pregare insieme, davanti alla meravigliosa Basilica ortodossa di Santa Sofia, tutte le confessioni religiose attive in Ucraina, abbiamo chiesto insieme a Dio, ognuno con le proprie preghiere, di far smettere la
guerra. Ma la guerra non si è fermata.
Poi ci siamo incontrati in un palazzo che viene chiamato “Palazzo d’Ottobre”, in piazza Majdan, e lì abbiamo lavorato insieme su 5 documenti: europei ed ucraini, leader religiosi e fedeli comuni, autorità locali e semplici cittadini, ed abbiamo detto cosa secondo noi dovremmo fare su 5 argomenti che ci stanno a cuore:
1) come favorire la nascita dei Corpi Civili di Pace;
2) se e come promuovere l’organizzazione di Commissioni di Verità e Riconciliazione;
3) come promuovere il dialogo interreligioso e la collaborazione operativa tra le chiese;
4) come scrivere nuove parole di pace a partire dall’esperienza ucraina;
5) come affrontare i traumi generati della guerra nelle popolazioni colpite.
Grazie all’ANCI ed a Labsus abbiamo avviato processi di collaborazione tra comunità cittadine italiane e ucraine.
Abbiamo scritto insieme ed in forma collettiva un instant book che potete trovare in più lingue sul sito del Progetto MEAN.
Ma i Corpi Civili di Pace ancora non arrivano e l’ultimo dibattito in sede di parlamento europeo risale a febbraio 2024, mentre nel Consiglio Europeo, dove i ministri degli esteri degli Stati membri dovrebbero decidere in materia di politica estera e di difesa, ancora tutto tace.
Dunque siamo andati a Kyiv per cosa? Abbiamo lasciato le nostre più o meno tranquille vite in Italia ed in Polonia e cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo generato apprensione e sgomento nelle nostre famiglie per un nulla apparente. Eppure chi vi ha partecipato sente dentro una piccola verità.
La pace è come quella perla per il quale vale la pena mille volte tuffarsi per cercarla, non fa nulla se cento di quei tuffi del pescatore raccontato nel Vangelo si rivelano inutili tentativi, perché il tuffo vincente sarà comunque frutto di tutti gli sforzi fatti in precedenza e non sai mai quando arriva la vittoria, ma sai che non arriverebbe senza i continui tentativi che si fanno per costruirla.
E noi sentiamo di aver fatto un ottimo tuffo inutile e che siamo ancora pronti a farne altri. Non solo. Sentiamo che anche se non abbiamo trovato la perla che cercavamo, in fondo in fondo neanche questo tuffo è stato del tutto inutile, perché nella nostra presenza fisica abbiamo detto ai fratelli e sorelle ucraini molto di più di ciò che avremmo potuto dire da lontano, insieme abbia sputato via un po’ di veleno che la guerra insinua in ogni cuore.
E non avremmo potuto farlo se non condividendo il dolore, la rabbia e la preghiera.
Se un giorno dovessero nascere davvero i Corpi Civili di Pace non saranno il frutto di una bella accademia o di un think Tank di onesti intellettuali, ma il frutto di una sofferenza condivisa che è diventata un bene superiore.
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